A un certo punto ti accorgi che, per gli altri e per te stesso, esigi il platino.
Nelle amicizie, negli amori, forse perfino nelle semplici conoscenze. Il platino è un metallo di transizione (che parola meravigliosa!). La sua natura lo predispone al cambiamento, a essere qualcos’altro per effetto di un’azione, poco conta se indotta o spontanea. Ogni relazione con un’altra persona ha in sé questa caratteristica vitale: la libertà di essere in perenne e costante trasformazione. Come potremmo, del resto, pretendere che gli altri immobilizzino la propria vita o siano nostri satelliti esclusivi. Neanche noi dovremmo perdere mai il nostro centro. Per nessuno al mondo. Solo questo consente ai rapporti di resistere alla corrosione del tempo, di sopportare carichi enormi (incomprensioni, parole inadeguate, possesso ingiustificato, gelosia, trascuratezza) prima di deformarsi. È il valore della duttilità. Infine il platino, come l’oro, è malleabile, ovvero ha una propensione a ridursi in lamelle sottili. Che mai potrà voler dire questo nei rapporti umani? Forse guardarsi nel profondo e osservare da vicino le proprie debolezze, raccontarle all’altro senza paura di essere giudicati. Non è facile trovare rapporti platino proprio come in natura il minerale; da una tonnellata di sabbia metallifera se ne ottengono forse tre o cinque grammi. Platino è qualcuno che vede quanto tu sia ridotto in lamelle sottili da quelle debolezze, ma le trasforma e le rende duttili, forti, restituendole disinnescate. Platino è ciò di cui dobbiamo circondarci per diventare “preziosi”.
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Il processo di scrittura quando non ti ci dedichi da un po’ è simile a un post sbornia. Dai di stomaco buttando a caso parole sulla pagina perché hai bevuto troppe emozioni. In ogni caso ti resta un enorme cerchio alla testa dato dai numerosi argomenti sospesi che sai non potrai unire tra loro facendone una collanina colorata da mettere al collo di chi ti legge. Dovrai ributtarne parecchi giù augurandoti che non brucino, così simili a materia infiammabile, vicino qualche organo vitale. E non è detto che sia sempre il cuore.
Per esempio, quel che brucia spesso nel mal d’amore è il fegato. Ci pensavo qualche giorno fa commentando un post che diceva “L’amore non corrisposto fa schifo”. Prima di dirvi cosa ne penso e cosa ho scritto lì, devo aggiungere che tra i commenti più divertenti c’era uno che diceva “A volte fa schifo pure quello corrisposto”. Il che mi ha portato a riflettere su tutte le coppie che a me sembra ce la facciano. Il loro rapporto appare una veleggiata sicura su mari esotici e tranquilli. Chissà quante burrasche interiori vengono taciute all’esterno, quelle che necessitano di un continuo lavoro di aggiustamento della rotta, di navigate in solitaria mentre l’altro finge che il mare alto non ci sia. Non so perché abbia fatto questa metafora marittima, ma credo per rendere l’idea che, dal mio punto di vista, prendersi l’impegno di una relazione (sana) sia simile al salpare verso mari che non conosci con una persona che, per necessità o virtù, imparerai a scoprire. Si ha entrambi il compito di portare la barca, integra, in un nuovo porto e da lì, magari, ripartire. L’amore è fatto di tappe ignote, affrontate con ogni condizione meteorologica; è fatto della capacità di tacere anche quando il vento ti porta chiaro il ruminìo dei pensieri altrui, ma l’altro dirà che era solo silenzio. Per affrontare un viaggio, un lungo viaggio si spera, occorre parlare la stessa lingua, intesa come panorama di valori condivisi, di esperienze, non necessariamente simili, ma da cui si è tratta una qualche lezione utile a conoscersi. Se non si conoscono i propri limiti e le proprie potenzialità non ci si può mettere in viaggio con nessuno, o quantomeno non sarebbe auspicabile per non danneggiare l’altro con la propria incompetenza. Ecco perché a quel post ho commentato che l’amore non corrisposto è come fare una domanda a una persona che parla una lingua diversa pretendendo o sperando ci comprenda. Forse, semplicemente, quella persona, in materia d’amore, non ha ancora imparato a parlare. Ogni cuore è un paese con una lingua sua. Occorre tempo, dedizione e pazienza per scoprirne ogni declinazione, accento, perfino quei silenzi che solo il vento fa comprendere quanto siano colmi. Quanto poco avveduti siamo nelle circostanze d’amore? Forse, prima di millantare amore, potremmo semplicemente guardare in profondità la persona che desideriamo o crediamo insostituibile scoprendo, di lei, ma soprattutto di noi, cose nuove. Per esempio che scegliamo sempre la stessa dinamica, forse donne o uomini non disponibili, diversi da ciò di cui abbiamo realmente bisogno. Di recente un articolo diceva che la persona che ci si confà ha il tono di voce che normalizza il ritmo del nostro cuore e di conseguenza il respiro. Proprio come accade per i bambini quando ascoltano la voce della madre. Siamo energia che vibra a una certa frequenza e i suoni che emettiamo parlano a livelli diversi e non per tutti allo stesso modo; forse, a una materia che non conosciamo e che pure ci guida. La prossima volta che penserete di aver conosciuto qualcuno di speciale, ascoltatelo parlare a occhi chiusi. Il cuore vedrà per voi. Si molla quando al desiderio manca l’azione, quando al voglio si sostituisce il vorrei.
Uno dei miei coach mi ha insegnato a muso duro che "siamo quello che facciamo". Il voglio è un impegno con se stessi, il vorrei limita, presentando alla mente pigra i più disparati "non posso, perché". Oggettivamente sono poche le cose che davvero non possiamo fare. Fino a qualche tempo fa avrei detto che tra le cose che so per certo di non poter più fare c’è la ballerina classica. Poi sono stata smentita da un’arzilla sessantenne che ha iniziato a fare pole dance e da un’amica che passati i cinquanta sta iniziando il percorso per diventare insegnante di yoga. Quindi no. Nemmeno l'età può essere una scusa valida per rinunciare. Me l'ha ricordato un'amica a cena un paio di sere fa citando, con il suo splendido inglese, Helen Hayes: "L' età è qualcosa di assolutamente irrilevante a meno che tu non sia un formaggio". A volte siamo così zelanti, premurosi con i nostri desideri che li chiudiamo in scatole bellissime adornandoli di carta e nastri colorati. Un po' come accade quando sentiamo freddo e sigilliamo i bambini sotto strati di lana per paura che si raffreddino. Il risultato, con i bambini e i desideri, è soffocarli, rendendoli pupazzi buffi incapaci di muoversi con scioltezza. I desideri senza un fuoco che arde, senza volontà e soprattutto ingabbiati nelle maglie di ciò che noi riteniamo giusto a realizzarsi, se ne stanno col naso all'insù a fissare una stella che non gli appartiene. Dove vanno quindi i desideri che, sabotandosi da soli, non si sono mai presi il lusso di pensarsi oltre, realizzati e felici di qualcosa che non avevano neanche osato immaginare? Si accomodano da qualche parte e aspettano. Come fanno i sentimenti delusi. Aspettano che qualcuno si accorga di loro e intanto restano silenziosi e impotenti, immobilizzati dalla rabbia, che piano diventa rassegnazione, poi risentimento e infine odio o rancore. Come il perdono libera dalle tenaglie del rancore, così l’azione scioglie le catene al desiderio che si manifesta a volte anche parecchio lontano dal punto in cui è nato. Predilige le strade senza asfalto e rotte sull’acqua mosse da venti di Ponente. Il non amore è, in estrema sintesi, limitatezza visiva. Quando vogliamo che gli altri siano e dicano ciò che crediamo giusto per noi. Il non amore di sé è un desiderio in gabbia. È tutto quello che rinunciamo a dire o fare in attesa di un domani, di un momento migliore, di una presa di coscienza, nostra o altrui. Il rimedio è la fiducia che l’Universo sappia creare per noi strade percorribili. Ma le vediamo solo dopo che ci abbiamo messo su il primo passo. Solo lì saremo in grado di allenare la capacità di amare, noi stessi - avendo cura delle nostre intenzioni - e gli altri. Perché alla fine di una vita quello resta. Di ciascun uomo resta quanto ha saputo amare. Ho un’amica che salva libri. Certo, di cose da salvare è pieno il mondo e qualcuno obietterà che alcune degne di note sono perfino più importanti e urgenti. Si potrebbero salvare gli alberi, le case della nostra infanzia con intatto il loro contenuto, gli animali abbandonati, chiavi, ombrelli e elettrodomestici pigri; si potrebbero salvare i ricordi, le emozioni trattenute, tenerle un po’ con sé e vedere se è poi il caso di confessarle, o lasciare che si perdano, accumulate sotto pile di entusiasmi e meraviglie che si svelano tra un delirio alcolico e un tramonto. Si potrebbero salvare tutta l’arte che non finisce nei libri di testo e nemmeno nella memoria dei dispositivi elettronici perché se non ne riconosci la bellezza, al di là della notorietà, semplicemente quell’opera d’arte non la vedrai e passerai oltre.
Ecco, qualche mattina fa la mia amica, passeggiando per un mercatino dell’usato ha notato un piccolo saggio nel cui titolo c’era la parola “relazione”. Sarà stata quella a fare breccia nella sua attenzione? Può darsi. Fatto sta che ha raccolto il libro dal cestino di quelli che regalavano perché destinati al macero. Si rammaricava pensando all’autore, “Se sapesse”, mi diceva. “Cosa penserebbe di questo suo libro, bello al punto che l’ho già quasi terminato. Perché in fondo un libro non pubblicato conserva intatte le sue possibilità, ma un libro pubblicato e non capito è quanto di peggio possa capitare all’autore”. Un libro non compreso in effetti è un’opportunità mancata. Per chi? Per chi non ha apprezzato le parole e l’intenzione di un messaggio che evidentemente non è riuscito a raggiungere il precedente possessore. Di chi è la colpa? Dell’autore che non è stato abbastanza incisivo, convincente, emozionante o del lettore che forse non aveva i codici giusti per decodificare il contenuto? Proprio come se avesse dovuto leggere in una lingua che non pratica e ha preferito rinunciare perché l’interpretazione, quella oltre il significato delle parole, costerebbe sforzo. Esistono colpe imputabili per tutto ciò a cui rinunciamo senza capire? E poi un libro cos’è. Un insieme di pagine (più o meno curate e pregiate) su cui qualcuno, credendoci, ha impresso un messaggio. Il fatto che sia stato abbandonato come qualcosa di non necessario non cambia l’idea dell’autore, né a lui gliene viene danno perché il libro ha una vita propria e se ne va in giro per il mondo libero di piacere oppure no. Proprio come le persone. Mi piace perfino pensare che altre copie abbiano avuto più fortuna e se ne stia su mensole affollate a pascersi dei discorsi tra un Eckhart Tolle della terza mensola con un Castaneda della prima. Ho pensato invece a quanto le persone siano così simili a dei libri, per quella loro intrinseca capacità di portarsi appresso la propria storia. Siamo spesso per gli altri libri non capiti. Riceviamo una scorsa, riserviamo lo stesso trattamento: una veloce lettura o peggio, solo l’attenzione di poche pagine per decretarne un giudizio complessivo. Quello che non capiamo nei libri ha la stessa sostanza di ciò a cui frettolosamente rinunciamo. Molto di noi rivela il nostro agire, di ciò che non siamo pronti a leggere, più che degli altri, in noi stessi. Allora, proprio come un libro fortunato raccolto da un cestino, auguriamoci di finire nelle mani giuste, sotto lo sguardo curioso e attento di chi saprà leggerci oltre e ci conserverà tra i libri irrinunciabili, tornando di tanto in quando a sfogliare la nostra vita per vedere se per caso, ora ci trova un significato diverso. “Esaminate ogni cosa e trattenete ciò che è buono” (Paolo Di Tarso). Quando nel 1964 Sergio Leone terminò il montaggio del film "Per un pugno di dollari" e doveva affidarne a qualcuno la composizione della colonna sonora, sulle prime si rivelò scettico nei confronti di chi gli suggerì il nome di Ennio Morricone, quel compositore romano che aveva già musicato un altro western (Duello nel Texas, ndr). I due, incontrandosi, scoprirono di essere stati finanche compagni alle scuole elementari. Il punto però è che alla RCA non credevano molto nel film e non intendevano spendere grosse cifre per la colonna sonora. Qualcuno nel vedere le sequenze che sarebbero dovute essere musicate si fece perfino delle grasse risate perché c'erano solo morti, sparpagliati dappertutto. Questo spinse Morricone a ingegnarsi. Inserì strumenti insoliti come il "marranzano", il fischio di Alessandro Alessandroni (non uno strumento, ma proprio il suono) che a mio avviso segna la storia del cinema degli spaghetti western, e un'incudine percossa con un martello. Inutile sottolineare che il regista si innamorò delle proposte ricevute dal compositore. Il brano Per un pugno di dollari, su cui tra l'altro spicca l'assolo di tromba del pugliese Michele Lacerenza, fu pubblicato su 45 giri e risultò il più venduto dell'anno (chissà se la battuta del film "Fate molto male a ridere. Al mio mulo non piace la gente che ride" non sia stata segretamente dedicata a quelli della RCA). Il punto però è che nel 2010, quarantasei anni più tardi, dopo 2 Oscar e innumerevoli premi e onorificenze, questa circostanza così particolare della creazione della colonna sonora (che Morricone ricordava tra le sue peggiori) viene inserita nella motivazione per il conferimento di un altro premio internazionale, il Polar Music Prize dell'Accademia Reale svedese di musica. Morricone è stato il primo italiano a riceverlo. Chissà cosa ha pensato il maestro in quella circostanza. Forse che gli svedesi farebbero bene a occuparsi di mobili componibili, o avrebbe preferito essere citato per altri lavori che riconosceva più maturi e degni. Eppure questo dimostra, come sempre, che tutto ciò che conduce nel tempo al successo, a ispirare generazioni di musicisti - nel caso del maestro Morricone anche in ambiti diversi come il pop e il rock - è dato dall'affinamento costante e mai pago di un'unica e semplice intuizione nata per superare un rifiuto, qualcuno che blocca la strada e i nostri passi per farci scoprire che siamo nati per volare. E oggi, gran concerto nel cielo (come direbbero i Pink Floyd). Alla fine di una domenica dedicata quasi esclusivamente alla formazione, mi ritrovo a navigare tra Internazionale e La Lettura, l’inserto domenicale del Corriere. Tra i primi articoli proposti, una lettura della quarantena (rassegniamoci, per un po’ la produzione artistica calcherà su quello) da parte dello scrittore spagnolo Manuel Vilas. Il titolo a mio avviso ne piega le intenzioni: I cento comandamenti. Intanto perché la parola fa pensare a delle regole. Da disattendere. Ce ne sono stati affidati dieci e in duemila anni non siamo stati capaci di trarne qualcosa di degno, figuriamoci cento. Addentrandomi nella lettura però, comprendo che è piuttosto un vissuto dell’isolamento reso sotto forma di elenco puntato. Sarebbe stato carino qualcosa del tipo: 100 cose che ho pensato stando recluso. Anzi, 101. Perché un elenco dovrebbe chiudersi, ma lasciare altrettante possibilità di aprirsi a un nuovo inizio. Disney insegna. Gli insiemi finiti non sono forieri di scoperte e novità. Chiusi come certe menti, appunto.
Insomma, per essere uno che ha scritto un romanzo (España, Alfaguara, 2019) indicato dalla rivista «Quimera» come uno dei dieci più importanti in lingua spagnola del primo decennio del XX secolo, Manuel non parti benissimo te lo dico. Tuttavia amo gli elenchi e quindi la curiosità ha pareggiato la polemica che si agitava nella mia testa. L’inizio è folgorante e sembra ispirato da positività e buoni propositi (Adesso lo sappiamo, la vita è mangiare in terrazza con un amico, andare in giro per librerie, prendere il sole, godersi un film al cinema, perdersi lungo una strada sconosciuta, prendere il treno. Per questo, quando tornerà, le chiederemo molto meno, alla vita). Non faccio in tempo ad appassionarmi che al punto 6 emerge un pessimismo leopardiano della prima ora. Manuel sottolinea il desiderio di vedere in Tv più bei film (Godard o Fellini, mi trova d’accordo) che deliranti interviste, che l’invidia è il motore della vita (punto 8) e c’è tanta disuguaglianza che la quarantena sembra non avere altri scopi che provare a metterla in evidenza. Ora, dire che il motore della vita sia l’invidia, pensateci, equivarrebbe a dire, per esempio, che si fanno figli perché tutti aneliamo a essere la famiglia Giannini (vi ricordo i sei gemelli che fecero scalpore agli inizi degli anni Ottanta). E mentre al punto 24 torna l’entusiasmo dell’incipit per una vita la cui bellezza va ricercata strenuamente dentro di noi, al punto successivo punta il dito contro gli aneliti di speranza, di ottimismo, di desiderio che il virus sparisca presto, tanto irreali quanto invidiabili. A questo punto la mia più che una lettura, si trasforma in una curiosa indagine su questa personalità duale così smaccata. Probabilmente l’autore ha creato un diario giornaliero che ha semplicemente consegnato senza censure e senza volontà di autoanalisi (chissà). Le parti migliori sono arrivate quando ha iniziato a rileggere Il Don Chisciotte (che consiglia tra le righe tra altre citazioni e preferenze). Boom! Un boato di bellezza. Chopin sa illuminare qualsiasi isolamento; La volgarità è un virus capace di mutazioni. Apre parentesi quasi poetiche sulle parole contestando ai politici di usarle a volte in maniera inopportuna per edulcorare la realtà: i poveri sono bisognosi per esempio, non vulnerabili. Contesta il governo spagnolo di aver scelto per la ripartenza una parola come desescalata (c’hai ragione Manuel, fa pensare a una caduta dalle scale). Poi però passa col lanciafiamme e fa piazza pulita di tutto asserendo che la quarantena sottrae la possibilità di innamorarsi e di provare qualsiasi emozione, compresa quella dello scrivere che si prosciuga come un pozzo nel deserto perché la vita vera è sospesa. Io invece credo che l’isolamento è stato per molti, non per tutti, una possibilità. Di dare la forma che preferivamo al quotidiano senza preoccuparci di esagerare. Come i bambini che vengono lasciati a giocare col pongo. Uno scrittore scrive in qualsiasi circostanza perché non sa fare altro. E Manuel lo dichiara al punto 60. PERCHÉ SCRIVO? Perché non so cucinare, non so aggiustare il motore di una macchina, non so alzare un muro, non so guidare un camion, non so tagliare i capelli, non so arare il campo né coltivare la terra, non so mungere una vacca. Non scrivere diventa un controsenso per qualcuno che ha solo le parole per difendersi dal mondo, come la rosa del Piccolo Principe aveva solo le spine. Eppure caro Manuel qualcosa hai prodotto, fosse anche un elenco di 100 punti. Che sia piuttosto lo spirito inquieto di Cervantes che pure visse imprigionato cinque anni, senza nemmeno internet e le serie tv di Netflix ad agitare la tua penna e renderla livorosa? L'autore del Don Chisciotte vede nelle brutture urbanistiche spagnole i nuovi mulini a vento, nella civiltà occidentale che ha fallito, l’emblema della bruttezza del mondo. Si scaglia, proprio come avviene nella seconda parte del romanzo, anche contro Sancho Panza che definisce tremendo per l’affermazione: Con il pane, anche i dolori sono buoni. Verso il punto 91 finalmente Cervantes libera Manuel del suo fantasma e in sogno gli dice "Vilas, lascia la letteratura e coltiva un orticello". Invece Vilas per fortuna non molla. Forse lì per lì non scrive (un romanzo è però in uscita in Italia per Guanda a luglio), ma torna a sognare, ed è già un modo per iniziare a far esistere la bellezza che gli scrittori quando vogliono, sanno immaginare. E nel finale ritrovo il Manuel Vilas aperto alla possibilità, che profetizza come unici signori il sole, l’acqua, la terra e il vento e dove la salute conta più dell’universo, della civiltà, del denaro. Allora mettiamolo questo 101: Vivere come se ogni desiderio fosse già compiuto. Maestro è colui capace di trasferire una propria abilità. Mago è il maestro a cui la vita ha tolto molto, ma la cui abilità gli consente di rimodellarla a proprio vantaggio al punto di farne un’opera d’arte.
Ecco perché sento di poter affermare che oggi siamo sì, più poveri di un pianista, di un maestro, ma soprattutto del mago Ezio Bosso. Mago perché in qualità di direttore d’orchestra aveva una bacchetta, aveva spiegato in quel poetico intervento al Festival di Sanremo nel 2016; bacchetta che magicamente gli donava l’ubiquità. Io credo gli avesse soprattutto dato la capacità di non arrendersi. Fin da quando a sette anni un altro insegnante di musica gli aveva predetto un futuro da operaio per seguire le orme paterne. Mi colpì, in quell’episodio sanremese, la fatica con cui articolava le parole, con uno sforzo tale da doverle accompagnare fisicamente, piegando e contorcendo il corpo. Per fortuna, diceva, c’era la musica. Che ci obbliga, per poterla apprezzare, a metterci in ascolto. Io la musica non la capisco. L’ascolto e basta. Il che in effetti è una fortuna perché mi obbliga a un atto di fede, senza interrogarmi continuamente sui perché e per come, senza volerci mettere sempre la logica dell’ego e della mente. La musica come un credo laico. Mi lascio raggiungere e trasportare dalle melodie secondo un sentire, un gusto direi, che non ho idea dove origini. Forse nasciamo ciascuno con uno spartito da riempire, ma ognuno ascolta una musica diversa. Penso accada anche con gli altri sensi. Quindi magari se una mela siamo in grado tutti di identificarla come tale, il suo sapore varia a ogni palato; il colore rosso, giallo, o verde diventano sfumature moltiplicate all’infinito negli occhi di chi guarda. E se nella musica probabilmente sarei costretta a gesti contratti come quelli del maestro Bosso, con le parole invece sento di muovermi su un terreno più familiare. Anche le parole sfuggono, amanti insoddisfatte in cerca sempre di nuove emozioni a cui unirsi. Eppure sono state proprio le parole il luogo in cui Bosso è riuscito a fare breccia nel muro della mia consapevole ignoranza musicale. Per raccontare il disco allora in uscita (La dodicesima stanza, ndr) il maestro spiegò che in un tempo lontanissimo i trovatori, cioè i musicisti medievali, componevano quelle che venivano chiamate all’epoca “stanze”, le canzoni. Nelle stanze moderne invece ci chiudiamo per proteggerci, anche se quella più paurosa l’abbiamo dentro, inesplorata, perché non ci piace e preferiamo andare in cerca di quelle buie altrui. Suona così attuale questo discorso nel momento in cui stiamo per uscire da stanze casalinghe in cui abbiamo provato a metterci in sicurezza. Chissà fuori quali nuove stanze ci aspettano. Verrebbe di volare via, perdersi proprio come aveva fatto Ezio Bosso seguendo il volo di un passerotto che aveva poi ispirato la scrittura di Following a bird. Sono certa che comporre musica, così come il momento in cui l’eseguiva (un mix di estasi e sforzo da quando era sopraggiunta la malattia), era per Bosso l’opportunità di uscire da quella stanza di sé che gli piaceva meno. Allora mi chiedo: e se da valente Mago, avesse anche scelto il momento giusto per scomparire affinché tornassimo a indagare la sua “pozione” più riuscita? Se nella musica aveva riconosciuto la sua terapia e in questa ci fosse la chiave anche per la nostra libertà? Forse, non a caso, congedandosi da quel palco floreale aveva insistito: “Ricordate, la musica come la vita, si può fare solo in un modo: insieme”. |
Alessandra NennaSogno. Archivi
Gennaio 2024
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