Alla fine di una domenica dedicata quasi esclusivamente alla formazione, mi ritrovo a navigare tra Internazionale e La Lettura, l’inserto domenicale del Corriere. Tra i primi articoli proposti, una lettura della quarantena (rassegniamoci, per un po’ la produzione artistica calcherà su quello) da parte dello scrittore spagnolo Manuel Vilas. Il titolo a mio avviso ne piega le intenzioni: I cento comandamenti. Intanto perché la parola fa pensare a delle regole. Da disattendere. Ce ne sono stati affidati dieci e in duemila anni non siamo stati capaci di trarne qualcosa di degno, figuriamoci cento. Addentrandomi nella lettura però, comprendo che è piuttosto un vissuto dell’isolamento reso sotto forma di elenco puntato. Sarebbe stato carino qualcosa del tipo: 100 cose che ho pensato stando recluso. Anzi, 101. Perché un elenco dovrebbe chiudersi, ma lasciare altrettante possibilità di aprirsi a un nuovo inizio. Disney insegna. Gli insiemi finiti non sono forieri di scoperte e novità. Chiusi come certe menti, appunto.
Insomma, per essere uno che ha scritto un romanzo (España, Alfaguara, 2019) indicato dalla rivista «Quimera» come uno dei dieci più importanti in lingua spagnola del primo decennio del XX secolo, Manuel non parti benissimo te lo dico. Tuttavia amo gli elenchi e quindi la curiosità ha pareggiato la polemica che si agitava nella mia testa. L’inizio è folgorante e sembra ispirato da positività e buoni propositi (Adesso lo sappiamo, la vita è mangiare in terrazza con un amico, andare in giro per librerie, prendere il sole, godersi un film al cinema, perdersi lungo una strada sconosciuta, prendere il treno. Per questo, quando tornerà, le chiederemo molto meno, alla vita). Non faccio in tempo ad appassionarmi che al punto 6 emerge un pessimismo leopardiano della prima ora. Manuel sottolinea il desiderio di vedere in Tv più bei film (Godard o Fellini, mi trova d’accordo) che deliranti interviste, che l’invidia è il motore della vita (punto 8) e c’è tanta disuguaglianza che la quarantena sembra non avere altri scopi che provare a metterla in evidenza. Ora, dire che il motore della vita sia l’invidia, pensateci, equivarrebbe a dire, per esempio, che si fanno figli perché tutti aneliamo a essere la famiglia Giannini (vi ricordo i sei gemelli che fecero scalpore agli inizi degli anni Ottanta). E mentre al punto 24 torna l’entusiasmo dell’incipit per una vita la cui bellezza va ricercata strenuamente dentro di noi, al punto successivo punta il dito contro gli aneliti di speranza, di ottimismo, di desiderio che il virus sparisca presto, tanto irreali quanto invidiabili. A questo punto la mia più che una lettura, si trasforma in una curiosa indagine su questa personalità duale così smaccata. Probabilmente l’autore ha creato un diario giornaliero che ha semplicemente consegnato senza censure e senza volontà di autoanalisi (chissà). Le parti migliori sono arrivate quando ha iniziato a rileggere Il Don Chisciotte (che consiglia tra le righe tra altre citazioni e preferenze). Boom! Un boato di bellezza. Chopin sa illuminare qualsiasi isolamento; La volgarità è un virus capace di mutazioni. Apre parentesi quasi poetiche sulle parole contestando ai politici di usarle a volte in maniera inopportuna per edulcorare la realtà: i poveri sono bisognosi per esempio, non vulnerabili. Contesta il governo spagnolo di aver scelto per la ripartenza una parola come desescalata (c’hai ragione Manuel, fa pensare a una caduta dalle scale). Poi però passa col lanciafiamme e fa piazza pulita di tutto asserendo che la quarantena sottrae la possibilità di innamorarsi e di provare qualsiasi emozione, compresa quella dello scrivere che si prosciuga come un pozzo nel deserto perché la vita vera è sospesa. Io invece credo che l’isolamento è stato per molti, non per tutti, una possibilità. Di dare la forma che preferivamo al quotidiano senza preoccuparci di esagerare. Come i bambini che vengono lasciati a giocare col pongo. Uno scrittore scrive in qualsiasi circostanza perché non sa fare altro. E Manuel lo dichiara al punto 60. PERCHÉ SCRIVO? Perché non so cucinare, non so aggiustare il motore di una macchina, non so alzare un muro, non so guidare un camion, non so tagliare i capelli, non so arare il campo né coltivare la terra, non so mungere una vacca. Non scrivere diventa un controsenso per qualcuno che ha solo le parole per difendersi dal mondo, come la rosa del Piccolo Principe aveva solo le spine. Eppure caro Manuel qualcosa hai prodotto, fosse anche un elenco di 100 punti. Che sia piuttosto lo spirito inquieto di Cervantes che pure visse imprigionato cinque anni, senza nemmeno internet e le serie tv di Netflix ad agitare la tua penna e renderla livorosa? L'autore del Don Chisciotte vede nelle brutture urbanistiche spagnole i nuovi mulini a vento, nella civiltà occidentale che ha fallito, l’emblema della bruttezza del mondo. Si scaglia, proprio come avviene nella seconda parte del romanzo, anche contro Sancho Panza che definisce tremendo per l’affermazione: Con il pane, anche i dolori sono buoni. Verso il punto 91 finalmente Cervantes libera Manuel del suo fantasma e in sogno gli dice "Vilas, lascia la letteratura e coltiva un orticello". Invece Vilas per fortuna non molla. Forse lì per lì non scrive (un romanzo è però in uscita in Italia per Guanda a luglio), ma torna a sognare, ed è già un modo per iniziare a far esistere la bellezza che gli scrittori quando vogliono, sanno immaginare. E nel finale ritrovo il Manuel Vilas aperto alla possibilità, che profetizza come unici signori il sole, l’acqua, la terra e il vento e dove la salute conta più dell’universo, della civiltà, del denaro. Allora mettiamolo questo 101: Vivere come se ogni desiderio fosse già compiuto.
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Maestro è colui capace di trasferire una propria abilità. Mago è il maestro a cui la vita ha tolto molto, ma la cui abilità gli consente di rimodellarla a proprio vantaggio al punto di farne un’opera d’arte.
Ecco perché sento di poter affermare che oggi siamo sì, più poveri di un pianista, di un maestro, ma soprattutto del mago Ezio Bosso. Mago perché in qualità di direttore d’orchestra aveva una bacchetta, aveva spiegato in quel poetico intervento al Festival di Sanremo nel 2016; bacchetta che magicamente gli donava l’ubiquità. Io credo gli avesse soprattutto dato la capacità di non arrendersi. Fin da quando a sette anni un altro insegnante di musica gli aveva predetto un futuro da operaio per seguire le orme paterne. Mi colpì, in quell’episodio sanremese, la fatica con cui articolava le parole, con uno sforzo tale da doverle accompagnare fisicamente, piegando e contorcendo il corpo. Per fortuna, diceva, c’era la musica. Che ci obbliga, per poterla apprezzare, a metterci in ascolto. Io la musica non la capisco. L’ascolto e basta. Il che in effetti è una fortuna perché mi obbliga a un atto di fede, senza interrogarmi continuamente sui perché e per come, senza volerci mettere sempre la logica dell’ego e della mente. La musica come un credo laico. Mi lascio raggiungere e trasportare dalle melodie secondo un sentire, un gusto direi, che non ho idea dove origini. Forse nasciamo ciascuno con uno spartito da riempire, ma ognuno ascolta una musica diversa. Penso accada anche con gli altri sensi. Quindi magari se una mela siamo in grado tutti di identificarla come tale, il suo sapore varia a ogni palato; il colore rosso, giallo, o verde diventano sfumature moltiplicate all’infinito negli occhi di chi guarda. E se nella musica probabilmente sarei costretta a gesti contratti come quelli del maestro Bosso, con le parole invece sento di muovermi su un terreno più familiare. Anche le parole sfuggono, amanti insoddisfatte in cerca sempre di nuove emozioni a cui unirsi. Eppure sono state proprio le parole il luogo in cui Bosso è riuscito a fare breccia nel muro della mia consapevole ignoranza musicale. Per raccontare il disco allora in uscita (La dodicesima stanza, ndr) il maestro spiegò che in un tempo lontanissimo i trovatori, cioè i musicisti medievali, componevano quelle che venivano chiamate all’epoca “stanze”, le canzoni. Nelle stanze moderne invece ci chiudiamo per proteggerci, anche se quella più paurosa l’abbiamo dentro, inesplorata, perché non ci piace e preferiamo andare in cerca di quelle buie altrui. Suona così attuale questo discorso nel momento in cui stiamo per uscire da stanze casalinghe in cui abbiamo provato a metterci in sicurezza. Chissà fuori quali nuove stanze ci aspettano. Verrebbe di volare via, perdersi proprio come aveva fatto Ezio Bosso seguendo il volo di un passerotto che aveva poi ispirato la scrittura di Following a bird. Sono certa che comporre musica, così come il momento in cui l’eseguiva (un mix di estasi e sforzo da quando era sopraggiunta la malattia), era per Bosso l’opportunità di uscire da quella stanza di sé che gli piaceva meno. Allora mi chiedo: e se da valente Mago, avesse anche scelto il momento giusto per scomparire affinché tornassimo a indagare la sua “pozione” più riuscita? Se nella musica aveva riconosciuto la sua terapia e in questa ci fosse la chiave anche per la nostra libertà? Forse, non a caso, congedandosi da quel palco floreale aveva insistito: “Ricordate, la musica come la vita, si può fare solo in un modo: insieme”. La parola di oggi è TALENTO.
Un talento è, nella considerazione comune, qualcosa che riusciamo a fare con facilità. Frequentemente la si associa alle arti e indica qualcuno che nasce con un dono. Un ballerino, un cantante, uno scrittore “talentuoso”, si dice spesso. Eppure anche in quel caso sono propensioni, caratteristiche che se non accompagnate da pratica, lavoro e un pizzico di fortuna, potrebbero facilmente tramutarsi in rinuncia. Accade molto più spesso di quanto non si pensi. Siccome subisco sempre il fascino dell’etimologia, sono andata a cercare anche l’origine della parola talento. Ho imparato che il talento era una moneta in circolazione fin dai tempi di Gesù, ma anche un’unità di misura. Nell’antica grecia per esempio aveva perfino un peso; un talento equivaleva a circa 26 kg di argento puro. Si pensi che intorno al 400 a.C. la paga di un lavoratore corrispondeva a 11 grammi di argento al giorno. Un talento valeva dunque circa 6 anni di lavoro. Senza nemmeno le ferie, il TFR e la cassa integrazione. Per motivi che non starò a raccontarvi, questi giorni mi ci stavo arrovellando sulla parola talento. Devo essermela macinata così tanto dentro, sopra e di lato, che l’Universo non ne ha potuto più di questa ruota e piuttosto che continuare a vedermi correre come un criceto nella sua gabbia, mi ha mandato qualcuno a rispondermi. Alla fine di due ore di chiacchierata ho riconsiderato quello che sapevo del talento. Non è un microchip che ti inseriscono prima di nascere e che magicamente ti dona un “saper fare” qualcosa senza che questo implichi uno sforzo eccessivo. Certo accade per alcune delle potenzialità "in luce". La maggior parte pensiamo di averne pochi, di talenti, qualcuno di esserne del tutto sprovvisto perché magari non fanno roteare per aria cinque birilli sulla testa, non danzano leggiadri o operano a cuore aperto. Alcune abilità speciali valgono per professioni speciali, ma tantissime persone normali, me compresa, abbiamo ancora numerose cose che facciamo con una relativa facilità, ma non ci piace fare. Anzi, le odiamo proprio. Mentre la vita - a cui piace prenderci in giro - continua a riproporcele. Pensiamo per esempio a chi ha il classico pollice verde capace di ridare vita anche a una piantina ridotta a un esile stelo sofferente. Non ne farebbe mai un lavoro perché il suo sogno è fare l’insegnante, ma accetta di curare le piante che le vengono affidate perché non è capace di rifiutare. Quanto cambierebbe la sua prospettiva se si rendesse conto che è un magnifico talento che le permette di ricevere gratitudine imperitura da chi credeva quella piantina spacciata e a cui per una qualche ragione sconosciuta era legata? Questo pare significhi cercare i propri talenti al contrario, ovvero esercitando caratteristiche e potenzialità nell’ambito delle cose che ci stanno un po' sul naso. Certo, abbiamo sempre la scelta e rifiutare del tutto, ma sotto quanti gesti ordinari abbiamo seppellito la nostra unicità? Penso a Marie Kondo, la giovane imprenditrice giapponese che ha fatto della mania dell’ordine una professione di successo. Penso a me che a lungo mi sono chiesta perché fossi finita in un posto strambo, ad accogliere viaggiatori di passaggio. Eppure di tanto in tanto qualcuno di loro mi ha ripagato con una storia meravigliosa. Forse anche l’empatia è un talento. Mi danno perfino uno stipendio per esercitarmi. A proposito di storie. Oltre venti giorni fa un’amica mi chiede un consiglio di lettura "al volo" per il figlio adolescente che avrebbe dovuto, come compito, scriverne o discuterne la recensione. Solo sette giorni per leggere (qualcosa di estremamente ridotto, era la richiesta prioritaria) e produrre qualcosa di dignitoso. Senza pensarci troppo faccio il titolo di un libro che mi rigirava in testa da giorni, avendone parlato anche con una libraia a caccia di "piccolini" (leggasi libri brevi o brevissimi). Oscar e la dama in rosa è un librino datato, di Éric-Emmanuel Schmitt. Ideale per un lettore svogliato e scrigno prezioso (a mio avviso) per ritrovare, anche in giorni confusi come questi, una riflessione sul tempo perché il protagonista di anni ne ha solo dieci e il suo tempo ha preso un'accelerata non da poco. Per incuriosire il mio lontano interlocutore devo aver scelto la citazione sbagliata perché mi è stato riferito “troppo religioso”. Tuttavia deve essere stato ritenuto un compromesso accettabile se distribuito su sole 44 pagine. Ho così atteso anch’io il risultato dell’interrogazione, ma alla data prevista l’insegnante è semplicemente passata oltre. Sono rimasta delusa più del ragazzo perché l’ho immaginato inerpicarsi su per i sentieri di parole (che quando una roba ti pesa è peggio che scalare una montagna, lo so bene) senza che nessuno si rivelasse curioso di conoscere un parere sul panorama visto da lassù. Poi ieri, proprio mezz’ora prima di iniziare il mio approfondimento guidato sul “talento” mi arriva un vocale in cui, a metà tra sorpresa e divertita, l'amica racconta che non solo l’insegnante si era ricordata del compito ormai scaduto, ma è rimasta folgorata dalla scelta perché guarda caso, quel piccolo romanzo è anche tra i suoi libri preferiti. Ora io non so se questa roba qui posso inserirla nella mia cartella personale “talenti” perché il piacere di leggere e parlare di ciò che leggo non l'ho mai considerato un dono, ma confesso il piacere di essere stata d'aiuto a recuperare un buon voto e la considerazione di questa professoressa inizialmente scettica verso la naturale chiusura adolescenziale del suo alunno. Per qualche ora questa professoressa lontana ha neutralizzato il senso di colpa di avere e (continuare ad acquistare) più libri di quanti io riesca effettivamente a leggerne. A dodici anni sapevo disegnare come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino.” (Pablo Picasso) |
Alessandra NennaSogno. Archivi
Gennaio 2024
HomeVoce ai personaggi (il podcast del romanzo)
La storia c'è. Facciamone un romanzo vero Il libro c'è. Voi? 0,18181818 Il titolo che vorrei Rinunce Rapsodia, insieme per resistere. Scrivendo La settimana della "Revolution" Lettere dal passato 1001. Traguardi e nuove partenze OMG... L'ho fatto davvero Sottolineatevi... in verde Storia di una matita rosso-blu... e una gomma Matematica e profumi Il talento BlogDating: ve lo dico con una bio
Lo stupore per le stelle immobili Il cuore e le riserve di sazietà Drusilla, l'unicità dietro la maschera Quello che non (mi ) scende A message in a book La paura ha paura L'ombra della luce La filosofia in una camminata Anche una crepa... La misura della felicità Siamo endiadi a metà Rapporti di platino Di quel paese chiamato Amore De/sidera... pensarsi oltre E se foste un libro da salvare? The great gig in the sky Manuel Vilas, 100 comandamenti più uno La stanza del Mago Ezio Bosso Se avere talento pesa Ma tu, che paura hai? Quando a mancare è il respiro E voi, come vi state proteggendo? L'ulivo che vuole essere preso in braccio Un virus legale e la gioia bambina Fate virale la gentilezza Leandro e le cassette dei sogni da montare La maschera e il volto Somewhere over the rainbow... there's Judy Il saluto salutare Condividete e moltiplicatevi A Natale regalatevi un T.E.A.M. Te lo dico in un vocale Vi svelo un segreto Come un calzino spaiato La fata delle scarpette Maleficent a modo mio Profumi di nuovo Gratitudine. Un motivo al giorno Om... e torno a casa Come avere successo in amore. Forse Parole da salvare Dimagrire. 4 consigli non richiesti Giovanni e la birra annacquata Nuovi passi hanno bisogno di nuove scarpe Riflessioni allo specchio La vita come un applique fulminato Come potenziare la sfiducia negli acquisti on line HappyhandZoombombing aziona circuito di beneficienza
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