Tra i miei argomenti preferiti ci sono gli amori sbagliati. Perché, fateci caso, gli amori giusti non sentono mai il bisogno di parole. Sentiamo la necessità di parlare quando dobbiamo mettere a posto, giustificare. Gli altri e noi stessi.
Settembre è il momento ideale per parlare di amori estivi o meglio, come gestirli quando ognuno torna a casa propria. Che poi, siccome gli amori estivi si sono estinti come le mezze stagioni, nel caso non abbiate raccattato neanche uno straccio di flirt durante le vacanze, usate pari pari quello che state leggendo quando vi capita di iniziare a frequentare qualcuno che sparisce con la stessa velocità con cui mi si riscalda il prosecco nel calice. Oggi va molto la conoscenza via social. Fai un commento sul profilo di un amico, chessò, parlando dei cinghiali che infestano le vie dei quartieri di periferia? Ti scrive in privato l’amico dell’amico che ti dice: “Comunque la carne di cinghiale è buonissima come la fanno in quel posto là. Ti va di venirci una sera?” Senza allontanarmi troppo parlando delle disgrazie delle amiche, vi dirò di un tipo che non molto tempo fa dopo avermi chiesto l’amicizia – rifiutata perché, io non ti conosco io non so chi sei – insiste in privato: "Ciao Alessandra, sono appassionato di giornalismo, per questo ti avevo inviato l'amicizia!" Vero? Va da sé che ho immaginato la sua libreria con tutti i libri di Bruno Vespa. Magari divisi per sfumature di colore delle copertine. Quindi il primo consiglio è: per piacere, rischiate di essere spudoratamente voi stessi. Portate avanti con dignità i vostri gusti, le vostre idee senza voler compiacere l’altro. Se la persona che state conoscendo non vi apprezza, meglio saperlo subito, perché fingere ciò che non si è equivale a voler mettere il piede in una scarpa troppo stretta. Fa male, cammini peggio e si vede. Ne va del nostro portamento. Ricordate le sorellastre di Cenerentola? La loro bruttezza derivava dalle scarpe strette. Secondo consiglio: sapete cosa volete? Ripeto: sapete bene, ma proprio bene, quello che volete, sapendo discernere? Cioè scartando ciò che non fa per voi? Perché intanto, che sia in vacanza o nel vostro ambiente abituale, se decidete di conoscere qualcuno, nel 90% dei casi occorre conoscersi prima che pensare alla leggerezza e zero aspettative. Io leggera non lo sono mai stata nemmeno all'asilo. Di solito accade questa situazione tipo. Non ci piacciono quelli che fumano, ma al primo appuntamento il tipo – che ci ha invitato al classico caffè dopo un paio di battute ben assestate -, sfodera un sigaro e lo accende mentre racconta (nel ruolo di vittima), l’ultima relazione in cui è stato mollato, circa 4 anni prima. Però lui proprio non riesce a farsene una ragione e allora non vuole più innamorarsi. SBAM. Folgorate. Perché ci siamo dimenticate che noi, uno che fuma il sigaro, lo riconosceremmo anche al buio fuggendo dalla parte opposta. Mentre adesso decidiamo che, avendo pronunciato la formula magica “non voglio innamorarmi”, sarà quello che NOI faremo cambiare. Di solito in questa roba qui, bene che vada, ci buttiamo sei mesi della nostra vita e almeno un paio di chili di sovrappeso per smaltire la delusione. Il che vi farà tornare a capo chino sulla lettura del post relativo al dimagrire (qui). L’amore in loop continuo con la dieta. Se invece sarete state più acute e almeno nella scrematura iniziale avrete saputo scegliere, potreste ritrovarvi a passare una serata carina, che sarà ripetuta. Probabile che al secondo, terzo incontro, siccome il tipo vi piace e lui inizia a non contenere la bava, finiate a fare sesso. Qualora questo porti improvvisamente a spegnere l’entusiasmo, è probabile che il fine fosse quello fin da subito. Non aggrappatevi ai messaggi carini, ai baci al tramonto (vale anche per gli uomini, eh). Conosco uomini che sono rimasti ancorati per mesi a come avevano preparato la cheesecake ai frutti di bosco con le loro mani solo per lei. Date a quei momenti il valore che hanno: un piacevole intrattenimento di cui, molto probabilmente avevate avuto sentore. Se fosse durato ancora un po’ non sarebbe stato male, ma è andata così. Non abbiate rimpianti e ricordate che a voi piace il profiteroles: il formaggio nei dolci, solo se vivete Oltralpe. Quarto e ultimo. Non fate promesse e non dite cose che non pensate solo perché siete guidati da un’emozione. Chi vi sta di fronte è una persona in carne e ossa, non un ologramma virtuale col quale evidentemente siete più avvezzi a confrontarvi. Semplicemente, se qualcuno vi piace, datevi tempo. Sia che vi siate incontrati dal salumaio sotto casa, sia ad altre latitudini e viviate a 500 chilometri di distanza. Ciò che arriva nella vostra vita ha sempre un senso, così come ciò che va via. Non stressate gli altri con la fretta di voler mettere un etichetta ai rapporti. Magari dopo tre settimane scoprite che non serve perché ve ne volete liberare come le formiche che vi infestano la dispensa; oppure verrà tutto così naturale che un giorno, senza averlo programmato, vi ritroverete a organizzare un trasloco per vivere assieme. Perché non è che arriva la persona giusta, si diventa la persona giusta. Poi ciò che serve arriva.
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Sulle prime distinguo solo il papà e non faccio caso nemmeno al sesso del piccolo accompagnatore.
Lui si esprime in italiano, ma l’interazione è ricca di pause. Mi dice che desidera andare a Gravina. Spiego che dovrà prendere almeno due mezzi con un cambio su Bari. Si stranisce. “Non pensavo – dice -, sarebbe stato così complicato. Non sono pratico”, continua a scusarsi. È italiano, ma ha sposato una francese e da tantissimo vive in Belgio. Accade spesso quando in una lingua ci si senta sperduti. In realtà siamo tutti stranieri nell’uso delle parole (anche di una lingua madre) e se pensassimo alle sfumature e ai molteplici significati di ciascuna, forse faremmo più attenzione e riusciremmo a ferire meno gli altri. Rassicuro il viaggiatore e vorrei dirgli che, proprio come accade per la lingua, esiste un grande numero di viaggiatori abituali che tuttavia sembrano sempre atterrati in una terra straniera. Gli sorrido comprensiva. Stabilito il tragitto, passiamo al prezzo. “Quanti anni ha il bambino”, chiedo sporgendomi oltre il banco. “Bambina”, mi corregge la collega dall’altra parte. Un breve scambio e mi viene detto che ha sette anni. Con noi viaggia gratis. Mi muovo in direzione della self e finalmente ho modo di notare delle inequivocabili scarpette rosa che tuttavia contrastano col taglio corto e sbarazzino tipico da maschietto. In attesa della stampa del biglietto continuo a spiegare al viaggiatore come orientarsi una volta arrivato nella stazione di Bari per proseguire il viaggio. La bambina lo interrompe. Nuovo scambio. “Sempre al cibo pensa”, commenta intenerito. Forse assumo un’aria interrogativa perché l’uomo, tornando a parlare con me spiega: “Mia figlia dice che tutti gli italiani quando parlano sembra stiano sempre parlando di cibo”. Rido e mi illumino. Ha catturato la mia attenzione. Questa bambina gusta le parole. Senza preoccuparmi se capisca o meno l’italiano mi rivolgo direttamente a lei dicendo: “Sei uno splendore. Resta così”. Si muove verso di me e mi abbraccia. Ha capito. Poi fa altrettanto con la collega che le chiede come si chiama. “Je m’appelle Pandora”. Pandora, colei a cui è stato donato tutto. Chi porta questo nome ama il rischio e sentire tutto sulla propria pelle. In nome omen. Il padre si scusa per questa esuberanza. “Non c’entro niente. Lei è così”. Lei è così. Menomale!, ho pensato. A sette anni distribuisce abbracci gratuiti e gusta le parole mentre le ascolta. Penso che non siamo pronti per vivere in un mondo in cui, mentre crediamo di vivere giornate tutte uguali, qualcuno ci abbracci all’improvviso. Ma Pandora oggi mi ha dimostrato che è possibile. Quando si parla di parole sono sempre in prima fila. E se sono da salvare, allora la vivo proprio come una missione. Sicuramente ne trarrò più soddisfazione che aver fatto da crocerossina agli uomini per tanti anni.
Senza le parole nessuna cosa esisterebbe perché sono le parole a dare tridimensionalità nella nostra mente alle azioni, emozioni e sentimenti (sì, badate di distinguerli sempre), a rendere tattili gli oggetti, consistenza alle lacrime, di dolore o di gioia. Così gravi, nell'accezione di "pesi", che per buttar fuori, allegerirci, sentiamo spesso la necessità di parlare. Ripensavo a questo proposito a un’opera, il Woyzech di Büchner, di cui ho appreso l’esistenza solo durante gli studi universitari. Mi è rimasto così impresso che ancora oggi attrae la mia attenzione ovunque ne senta parlare. Un’opera incompiuta e frammentata, come una serie Tv, praticamente, ma dei primi dell’Ottocento. Fu ritrovata molto dopo la morte dell’autore. Il fascino di questa storia (per gli studiosi) fu la capacità di essere estremamente moderna nella cultura tedesca di quegli anni per la situazione raffigurata, la scelta del protagonista e del linguaggio. Qual è il particolare che ha colpito me? Il fatto che al protagonista, umile soldato vessato dai superiori, l’autore avesse messo addosso temi, passioni ed emozioni tipiche della tragedia classica (il tradimento, la gelosia, il possesso) senza dargli la possibilità di esprimerli con le parole. Quest’uomo di umili origini non aveva il lessico necessario per dare forma alla sua sofferenza e buttarla fuori. E se è pur vero che ogni lingua ci offre i sinonimi, ogni parola come ogni persona, ha una sua sfumatura con uno specifico significato e non un altro. Come se in natura improvvisamente sparisse il rosso. Ecco perché quando ho letto di questo un progetto itinerante che arriverà anche a Bari, dal prossimo 20 ottobre, promosso dalla casa editrice Zanichelli mi sono illuminata. Forse occorrerebbe portarci dei bambini. In ogni città (ora a Milano, ndr) sarà allestita una zona a lessico illimitato dove su un totem si potrà scegliere, tra oltre 3100 lemmi, la propria parola, per provare a farla sopravvivere. Il che oggi, con l’avvento degli ibridi, dell’esigenza di nuove parole per descrivere più cose assieme per recuperare e zippare spazio, è più una corsa a perdere. Nonostante tra le nuove ce ne siamo alcune egregie, tipo "Libridine”, desiderio smodato di possedere libri e leggere. Ma, sarò un po’ vintage, le mie preferite sono quelle messe all'angolo, arcaiche e non più funzionali al quotidiano. “Aio” per esempio, la persona che nelle famiglie nobili si occupava dell’educazione dei giovani. Una specie di Signorina Rottermeier, per intenderci. Non esiste più. Anche i figli dei reali frequentano la scuola comune. Pensiamo a “Crapula”, il cui uso risale addirittura alla seconda metà del 1300. Indica una persona incline alle esagerazioni, nel bere e mangiare. Sua diretta derivata è “Crapulone”, usata da Zio Paperone nei confronti del povero Paperino nell’accezione di ingordizia. Crapulone, un po’ onomatopeico, tipico del lessico dei fumetti, fa in effetti sorridere. Se le parole fossero affidate ai bambini sono certa le farebbero germogliare. Forse bisognerebbe tornare a leggere i fumetti. O tornare bambini. @zanichellieditore #paroledasalvare Io subisco il fascino di quelli che ce la fanno. I tecnici del mestiere. Perché l’hanno assimilato così nel profondo di ogni loro cellula che ti trasmettono un po’ quell’energia lì del “Se tu vuoi, puoi”. E tu ci credi. Più o meno per una settimana.
I peggiori però sono quelli che dichiarano “Ah, no. Io d’estate, col caldo, proprio non ce la faccio a mangiare”. E tu li guardi come se avessero appena fatto outing sul loro essere alieni. A chiederti quando e in che circostanza esattamente hai permesso loro di entrare nella tua vita. Per quanto mi riguarda, ho trovato un mio equilibro psico-fisico nella palestra. Ma ho avuto la fortuna di conoscere un gruppo di persone folgoranti che io chiamo la gente Arcobaleno perché mi donano un’energia unica. Nelle diete invece sono discontinua. Infatti per cercare di darmi un impegno, sottoscrivo contemporaneamente l’abbonamento open in palestra e quello con la nutrizionista. Tuttavia un pizzico di psicologia mi ha aiutato. Ho elaborato quattro punti sintetizzando ciò che ho trovato leggendo o vedendo video di affermati studiosi e psicologi, e se ci trovavo un'affinità le mettevo in pratica. Periodicamente hanno funzionato. A voi. Il primo passo per dimagrire è: cambiare abito. Nel senso più stretto del termine, ma anche inteso come habitus, abitudini. I grandi artisti del passato, Rubens, Van Dike tanto per dirne un paio, quando dovevano dipingere indossavano i loro abiti più belli. Non solo: si truccavano e acconciavano. Perché credevano che quell’attenzione, quella cura per sé, sarebbe stata trasferita alla loro opera. Quindi cambiamo abito. E se non possiamo quello, cambiamo i colori. Qualche tempo fa per esempio per me è stato il tempo del verde. Che poi chi lo stabilisce che un capo di abbigliamento non ci stia bene? Nessuno credo abbia un Enzo Miccio o Chiara Gozzi che escono dall’armadio ogni mattina urlandoci contro “Ma come ti vesti!”. Quando cambiamo, un’abitudine, un semplice abito, diamo una sferzata di energia al cervello. Provate! Il secondo passo è il silenzio. Chi parla troppo tende anche a fidarsi troppo dei consigli altrui più che di se stesso. Stop anche alle autocritiche e al lamento di quanto sia difficile mantenere i buoni propositi. Basta. Silenzio. Che non significa che vi dovete chiudere in clausura in casa e non avere contatti col mondo, ma concedersi durante il giorno delle pause. Chi ingrassa solitamente ha un’energia mentale che altri non hanno e che spaventa. Perché si pensa che se venisse fuori chissà dove potrebbe portarci, chissà quali trasgressioni potremmo fare. Magari saremmo costretti ad allontanarci da chi amiamo perché il nostro potenziale ci schiuderebbe nuove possibilità. E ci si chiude dietro una confortante corazza di massa grassa. Terzo passo, diretto maggiormente alle donne, ma vale anche per gli uomini. Riscoprire il femminile. Andate in cerca dei vostri dettagli di bellezza ed esaltateli. Ogni donna sa su cosa concentrare l’attenzione altrui. Comprare un rossetto, delle ciglia finte, delle nuove palette di colori. E passare qualche ora davanti allo specchio per costruire un nuovo look. Potrebbe anche solo ridursi a partecipare a qualche evento in cui vi insegnano a truccarvi gli occhi in modo da esaltarne la forma, tanto per fare un esempio. Ormai questo tipo di attività fioccano ovunque, da Torino al Capo di Leuca. Il prodigio qual è. Che questa rinnovata attenzione muta la propria identità profonda e risveglia delle aree antiche del cervello. Ovviamente potrebbe valere al pari se ci si dedicasse a una nuova passione, un interesse, un desiderio abbandonato in passato. Quando la mente è distratta in una attività la fame svanisce. Quarto e ultimo punto. La fame è sempre legata a una insoddisfazione. Vogliamo per forza andare d’accordo con tutti. Ci facciamo andare bene situazioni che non ci piacciono. A volte accettiamo un invito e ci facciamo condizionare anche su cosa mangiare perché non siamo capaci di dire no. Basta. Fuori le persone che non ci fanno bene e le frustrazioni che le accompagnano. Mangiamo per chiudere voragini interiori. Un passato triste, un ricordo, un ex, un problema. Solitamente cerchiamo cibi solidi (carboidrati, zuccheri) e il nostro gusto si ancora alla materia. Dobbiamo farci sottili invece e quindi bere, prediligere cibi fluidi, che scorrono. Pensiamo all'acqua che scorre. Se trova un ostacolo cosa accade? Cerca subito un’altra via e un altro pertugio, seppur piccolo, per proseguire. E quando lo trova diventa persino più irruenta. Ovviamente se per una volta ci vogliamo bere su non acqua, ma un buon prosecco, con gli amici di sempre, secondo me, funziona anche meglio. Ma tu in palestra vai per farti le foto?
In effetti riflettevo come nell'ultimo anno la mia galleria si sia arricchita di foto di gruppo del prima o dopo la lezione (e qualche volta durante, ma al break). La semiotica all'università mi ha insegnato che i segni sono qualcosa che parla, ci dice, al posto di qualcos'altro. Esempio: se vedo del fumo in lontananza, non ho bisogno di vedere il fuoco che lo origina. Lo so, per esperienza. La semiotica applicata alla palestra insegna che se vedi un deck tra due persone, una che ha appena finito la lezione e l'altra che deve iniziarla, è segno di una staffetta perché quelle due persone hanno lentamente iniziato a entrare in confidenza e sono diventate amiche grazie all'obiettivo che hanno in comune, al luogo che condividono e alle altre persone speciali che hanno intorno. Soprattutto quelle. Se poi l'altra persona nella foto si chiama @Angela Pellecchia, il deck diventa il segno per parlare di un gesto gentile, gratuito, ma soprattutto spontaneo. Merce rara oggi. Io in palestra alleno il settimo senso: quello del team.🌈❤️ La premessa è che a me piacciono le storie. Tutte. In tema d'estate e di amori nati in vacanza (e come farli durare), ci si è cimentata anche la mia amata Radio Deejay. Ieri, l'attimo prima di scendere dall'auto, la telefonata di una ascoltatrice che racconta di aver conosciuto (mentre era in vacanza in Australia) un ragazzo, anch'egli italiano, che si era trasferito lì per lavoro. Lei rientra dalla vacanza e dopo un mese di contatti lui decide di tornare in Italia e cambiare la sua vita di nuovo. Sono sposati da 6 anni. Ora, siccome mi aspettavano al corso di Bodysculpt non saprò mai qual è il segreto rivelato da lei per far durare le storie a distanza. O le storie in generale. Nella mia esperienza conto un ex a cui non riuscivo nemmeno a fare attraversare la tangenziale, figuriamoci due oceani. Morirò single, ma in formissima. Renée Zellweger, Il diario di Bridget Jones "Io non ti ho amato per quello che eri. Non ti amo per quello che sei. Ti ho amato e ti amo per come mi fai sentire quando sto con te".
Un’amica mi suggerisce questa frase, che offre tantissimi spunti di riflessione. Forse vero che gli altri hanno un valore neutro, se non essere se stessi. Così come ogni oggetto e cosa che esiste non ha un proprio colore. L’occhio umano vede il colore che quell’oggetto riflette. Se valesse la stessa cosa per le persone? Gli altri riflettono noi stessi e ci permettono di vedere il colore che emaniamo in quel momento. Per estensione, quello che proviamo in loro compagnia non ha a che vedere con delle loro qualità (o forse sì, se permettono alle nostre di essere esaltate, portate in luce). Come il sale esalta il gusto dei cibi, per intenderci. Stiamo bene o male con qualcuno in relazione al riflesso che ci offrono di noi stessi. Gli altri sono specchi. |
Alessandra NennaSogno. Archivi
Gennaio 2024
HomeVoce ai personaggi (il podcast del romanzo)
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