La parola di oggi è TALENTO.
Un talento è, nella considerazione comune, qualcosa che riusciamo a fare con facilità. Frequentemente la si associa alle arti e indica qualcuno che nasce con un dono. Un ballerino, un cantante, uno scrittore “talentuoso”, si dice spesso. Eppure anche in quel caso sono propensioni, caratteristiche che se non accompagnate da pratica, lavoro e un pizzico di fortuna, potrebbero facilmente tramutarsi in rinuncia. Accade molto più spesso di quanto non si pensi. Siccome subisco sempre il fascino dell’etimologia, sono andata a cercare anche l’origine della parola talento. Ho imparato che il talento era una moneta in circolazione fin dai tempi di Gesù, ma anche un’unità di misura. Nell’antica grecia per esempio aveva perfino un peso; un talento equivaleva a circa 26 kg di argento puro. Si pensi che intorno al 400 a.C. la paga di un lavoratore corrispondeva a 11 grammi di argento al giorno. Un talento valeva dunque circa 6 anni di lavoro. Senza nemmeno le ferie, il TFR e la cassa integrazione. Per motivi che non starò a raccontarvi, questi giorni mi ci stavo arrovellando sulla parola talento. Devo essermela macinata così tanto dentro, sopra e di lato, che l’Universo non ne ha potuto più di questa ruota e piuttosto che continuare a vedermi correre come un criceto nella sua gabbia, mi ha mandato qualcuno a rispondermi. Alla fine di due ore di chiacchierata ho riconsiderato quello che sapevo del talento. Non è un microchip che ti inseriscono prima di nascere e che magicamente ti dona un “saper fare” qualcosa senza che questo implichi uno sforzo eccessivo. Certo accade per alcune delle potenzialità "in luce". La maggior parte pensiamo di averne pochi, di talenti, qualcuno di esserne del tutto sprovvisto perché magari non fanno roteare per aria cinque birilli sulla testa, non danzano leggiadri o operano a cuore aperto. Alcune abilità speciali valgono per professioni speciali, ma tantissime persone normali, me compresa, abbiamo ancora numerose cose che facciamo con una relativa facilità, ma non ci piace fare. Anzi, le odiamo proprio. Mentre la vita - a cui piace prenderci in giro - continua a riproporcele. Pensiamo per esempio a chi ha il classico pollice verde capace di ridare vita anche a una piantina ridotta a un esile stelo sofferente. Non ne farebbe mai un lavoro perché il suo sogno è fare l’insegnante, ma accetta di curare le piante che le vengono affidate perché non è capace di rifiutare. Quanto cambierebbe la sua prospettiva se si rendesse conto che è un magnifico talento che le permette di ricevere gratitudine imperitura da chi credeva quella piantina spacciata e a cui per una qualche ragione sconosciuta era legata? Questo pare significhi cercare i propri talenti al contrario, ovvero esercitando caratteristiche e potenzialità nell’ambito delle cose che ci stanno un po' sul naso. Certo, abbiamo sempre la scelta e rifiutare del tutto, ma sotto quanti gesti ordinari abbiamo seppellito la nostra unicità? Penso a Marie Kondo, la giovane imprenditrice giapponese che ha fatto della mania dell’ordine una professione di successo. Penso a me che a lungo mi sono chiesta perché fossi finita in un posto strambo, ad accogliere viaggiatori di passaggio. Eppure di tanto in tanto qualcuno di loro mi ha ripagato con una storia meravigliosa. Forse anche l’empatia è un talento. Mi danno perfino uno stipendio per esercitarmi. A proposito di storie. Oltre venti giorni fa un’amica mi chiede un consiglio di lettura "al volo" per il figlio adolescente che avrebbe dovuto, come compito, scriverne o discuterne la recensione. Solo sette giorni per leggere (qualcosa di estremamente ridotto, era la richiesta prioritaria) e produrre qualcosa di dignitoso. Senza pensarci troppo faccio il titolo di un libro che mi rigirava in testa da giorni, avendone parlato anche con una libraia a caccia di "piccolini" (leggasi libri brevi o brevissimi). Oscar e la dama in rosa è un librino datato, di Éric-Emmanuel Schmitt. Ideale per un lettore svogliato e scrigno prezioso (a mio avviso) per ritrovare, anche in giorni confusi come questi, una riflessione sul tempo perché il protagonista di anni ne ha solo dieci e il suo tempo ha preso un'accelerata non da poco. Per incuriosire il mio lontano interlocutore devo aver scelto la citazione sbagliata perché mi è stato riferito “troppo religioso”. Tuttavia deve essere stato ritenuto un compromesso accettabile se distribuito su sole 44 pagine. Ho così atteso anch’io il risultato dell’interrogazione, ma alla data prevista l’insegnante è semplicemente passata oltre. Sono rimasta delusa più del ragazzo perché l’ho immaginato inerpicarsi su per i sentieri di parole (che quando una roba ti pesa è peggio che scalare una montagna, lo so bene) senza che nessuno si rivelasse curioso di conoscere un parere sul panorama visto da lassù. Poi ieri, proprio mezz’ora prima di iniziare il mio approfondimento guidato sul “talento” mi arriva un vocale in cui, a metà tra sorpresa e divertita, l'amica racconta che non solo l’insegnante si era ricordata del compito ormai scaduto, ma è rimasta folgorata dalla scelta perché guarda caso, quel piccolo romanzo è anche tra i suoi libri preferiti. Ora io non so se questa roba qui posso inserirla nella mia cartella personale “talenti” perché il piacere di leggere e parlare di ciò che leggo non l'ho mai considerato un dono, ma confesso il piacere di essere stata d'aiuto a recuperare un buon voto e la considerazione di questa professoressa inizialmente scettica verso la naturale chiusura adolescenziale del suo alunno. Per qualche ora questa professoressa lontana ha neutralizzato il senso di colpa di avere e (continuare ad acquistare) più libri di quanti io riesca effettivamente a leggerne. A dodici anni sapevo disegnare come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino.” (Pablo Picasso)
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Nella giornata mondiale del libro non avrei potuto né esimermi dal parlarne, né forse dal comprarne. Ne compro sempre più di quanti riesca a leggerne. Sarà la mia eredità più preziosa. Così andando controcorrente rispetto ai programmi della mattina mi sono lasciata incuriosire dagli appuntamenti che si rincorrono in rete tra cui Artigiani di parole. Quel che sarà e di link in link sono arrivata a una piattaforma che si propone di raccontare e divulgare le storie e i libri che li contengono. Il merito di chi ci riesce in maniera più efficace, per me, è di quella persona capace di prenderti per mano e portarti dentro il libro, squadernando la porta di un mondo di cui fino a due minuti prima ignoravi l’esistenza. Di più. Non è solo il mondo descritto nel libro e quindi l’immaginario dell’autore, ma anche il contesto di chi si fa carico della sua promozione (c’è sempre un motivo palese o inconscio che ci porta ad amare uno scritto) e ancora oltre, la casa editrice che ha scommesso il proprio tempo e il proprio denaro affinché quella storia sviluppasse gambe proprie per avventurarsi (non uso a caso questa parola), tra quelle degli uomini, sempre troppo di fretta o svogliati. Come mettere un pulcino sulla Fifth Avenue. Così mi sono ritrovata ad ascoltare un vecchio podcast in cui ospite era Cristina Di Canio, autrice di La libreria delle storie sospese (Rizzoli) e proprietaria di un sogno che l’ha vista saltare la barricata e finire a parlare e vendere i libri degli altri. Credo (e si sente) le piaccia più che averne scritto uno. L’unica libreria Il mio Libro (al mondo forse) in cui si può perfino acquistare un filo da pesca, perché da diversi anni Cristina ne conserva uno in un cassetto semmai la stramba giovane cliente che gliene chiese uno anni fa, si ripresenti. Al minuto 23.48 inizia a raccontare del suo libro scommessa, Vangelo Yankee di Nicolò Gianelli pubblicato da una piccola casa editrice indipendente che ricorda il titolo di una canzone: Round Midnight. Un libro pocket, del formato di un Vangelo appunto, racconta Cristina che intanto legge un estratto e mi conquista. Un libro che è un viaggio nel viaggio perché ha una narrazione originale, ovvero parte dalla fine, sciorinando al contrario la storia per tornare all’inizio, ai motivi che muove il gruppo di ragazzi protagonisti a percorrere la route 66. Un viaggio che, terminato il podcast, mi porta a cercare come un assetato nel deserto questo librino, a volermene impossessare a ogni costo nel mezzo di una pandemia. Scopro che la Round Midnight in effetti è un nome scelto in omaggio all’omonimo brano di Thelonious Monk che aveva ossessionato a lungo Miles Davis e che ne aveva rinverdito il successo. In verità è anche un film dedicato al mondo del jazz la cui colonna sonora (di Herbie Hancock) gli valse un Oscar. Ma torniamo al brano musicale, Round Midnight, che diventa quindi l’amuleto di un trio di folli (perché tali possono definirsi coloro che scelgono di fronteggiare i colossi della distribuzione editoriale e tutti i connessi difendendosi a colpi di poesie, racconti, storie illustrate e corposi romanzi dal sapore "fangoso"). Una scommessa che oggi è diventata anche la mia perché i “piccoli” sono sempre più indifesi, ma spesso donano una cura maggiore alle parole altrui. E infine perché mi sembra di poter contribuire con questo gesto alla realizzazione del desiderio di questo giovane autore Nicolò Gianelli, che ha scritto (prima di andare via troppo presto): Vorrei fare un album con le foto degli altri dove appaio per sbaglio tra i passanti sfocati perché là sullo sfondo di mille primi piani viaggiavo per il mondo col passo dei fantasmi. Rivoglio quel mio volto indefinito come fumo che volava inosservato sulle cose messe a fuoco. Ecco, a volte ritrovarsi con un libro tra le mani può voler dire aver vissuto un’avventura pazzesca. Senza nemmeno essere usciti da casa. L'ingresso della libreria di Cristina Di Canio e a destra una riproduzione in scala degli interni Tra i millemila input quotidiani oggi mi sono lasciata attrarre da un’immagine che sulle prime stava scivolando sul fondo con le altre. VASETTI DELLE PAURE, il titolo.
Ventotto vasetti, disposti su più file, elencano paure, dalle più ataviche come il buio, la morte, l’invecchiare, il fallire, l’abbandono, ad altre più contemporanee come l’ansia sociale e il parlare in pubblico. Stavo passando oltre, ma l’idea di “giocare con le mie paure”, di interrogarmi, ha fermato la mia corsa social. Ho così indagato quelle di chi postava l’immagine scoprendo l’affinità con gli insetti (che scritta così sembra io abbia stretto amicizia con gli insetti e in senso lato sì, perché da tempo anziché ucciderli li invito semplicemente a mantenere la distanza sociale. Dal 4 maggio, per brevità, considererò tutti insetti). Il passo successivo previsto dal giochino, era condividere l'immagine taggando i nomi di chi si invitava ad analizzare e svelare le proprie, di paure. Ho scoperto che comune a molti c’è l’annegare, anche tra chi pratica con regolarità sport acquatici (ed è, mi hanno spiegato, un modo per avvicinare i propri limiti, per guardare oltre e, forse, ridimensionarsi). Vero che ci siamo illusi di aver sfidato e vinto gli elementi, ma in fondo sappiamo che né il transatlantico più grande, né l’aereo più affidabile potranno nulla contro una Natura che si ribella. Siamo ancorati alla terra, invece. Così inesorabilmente intrecciati alle radici del Pianeta che adesso esige il pagamento dei danni, come per un affittuario irresponsabile che ha fatto bisboccia tutte le sere distruggendo e sporcando. Per quanto riguarda me sono stata capace di immaginare paure che non sono contemplate come perdere la vista e la memoria. Senza memoria smarrirei emozioni, ricordi, dovrei ridefinire perfino i miei limiti. Senza vista dovrei rinunciare al piacere immenso della lettura, del smarrirmi in una frase composta così bene da giungermi come melodia. Gli audibili non sarebbero mai la stessa cosa perché il tempo della lettura automatica non è quello della meta-lettura che procede per associazioni di immagini e anticipa o rallenta rispetto al testo. Mi fanno paura i germi (anche prima del virus). Sono un po’ “maria pezzetta”. Stare in un ambiente ordinato e pulito mi acquieta. Insieme alla già citata paura di annegare, mi allineo tra quelli che hanno paura di perdere chi amano. Parlo proprio dei pezzi di cuore, non il fidanzato o la relazione di turno. Così, seguendo la voce frettolosa della mente, ho riempito quel vasetto col colore fucsia, quello delle emozioni intense. Poi “maria pezzetta” si è inerpicata in alto e nello spazio improvvisamente angusto della mia mente (gli spazi stretti sono contemplati tra le paure infatti) ha aperto finestre e fatto circolare altri saperi. Ha iniziato a circolare la certezza che non perdiamo nessuno. Mai. A ben vedere non perdiamo nemmeno quelli che non ci piacciono. Solo il perdono li mette a tacere per sempre. Tuttavia, per tornare a concentrarci sul dolore e la paura della perdita, sappiate che ricordando il passato, il sentimento (che l’emozione è evanescente) e la persona a cui quel momento è legato, tutto torna energeticamente a vivere. La morte fisica porta via abitudini, respiri e presenza, ma pare sia illusoria anche quella. Tutto è così vicino che basterebbe allungare un braccio per accarezzare qualcuno. Fatelo se avete voglia. Certo, ci sono le paure che ci salvano tipo quella del fuoco; non avvicinarcisi troppo è sempre consigliabile. Così pure non direi mai a qualcuno che soffre di vertigini e ha problemi di equilibrio di farsi scattare una foto sulla punta di uno strapiombo. Però la volontà e una buona motivazione aiutano. Qualche anno fa, nell’elenco delle mie prime volte, c’era il “nuotare con i delfini”. Ora, l’acqua non è esattamente l’elemento in cui mi sento più a mio agio, ma questo desiderio superava tutti i timori. Grazie a un amico che in quel momento viveva a Malta ho realizzato non solo il desiderio, ma anche la mia autostima ne ha beneficiato perché l’addestratrice mi ha affidato per qualche minuto la pratica con un delfino. Lui, il delfino, doveva seguire i miei comandi e l'ha fatto: si è fidato completamente di me. Ora, poco importa che gli ho dato il comando sbagliato ed è rimasto immobile a bordo vasca mentre guardava partire i suoi compagni che si esibivano in acrobatiche piroette, ma lui ha avuto fiducia che io sarei stata all’altezza del compito. Dunque spesso, spessissimo, il mondo è disposto a credere in noi se solo osassimo farlo anche noi. Penso alla paura di parlare in pubblico o a tutti i progetti non iniziati per paura di fallire ed essere giudicati. Chiudiamo simbolicamente le nostre paure in questi barattoli dopo averle individuate. Possiamo osservarle da vicino e distinguere tra quelle che ci salvano e quelle che limitano. Cosa? La possibilità di scoprire chi potremmo diventare mentre tentiamo di superarle. A mancare si impara.
Il respiro la sa lunga. Quante volte abbiamo usato l'espressione "mi è mancato il respiro", indipendentemente per un evento bello o uno più triste. Alcune cose, situazioni e persone iniziano a trasmettere il loro mancare ancora prima, nella presenza, percepita così preziosa, nutriente che nel suo lento dissolversi anticipa un futuro scarso, difettato. Riempiono, saturano, profumano di necessario. L'abbraccio di una persona cara. Poi c'è un altro tipo di mancanza, quella che non nasce necessariamente dall'assenza protratta. È una mancanza non esperita, non vissuta, ma di cui a un certo punto si percepisce il vuoto. Una mancanza che in me è nei libri che non ho ancora letto, negli studi che non ho ancora fatto, nei ritmi, incerti e confusi che provano a imporsi nella nuova quotidianità e spingono fuori il vecchio, come un potente detossinante. Il tempo privato del superfluo, limita ulteriormente lo spazio al bisogno, elimina orpelli come un'attrice consumata si separa dagli abiti di scena di uno spettacolo dismesso scoprendo, ora senza più fretta di salire sul palco, di avere perfino odiato il suo personaggio. Com'è possibile?, si chiede provando essa stessa disagio mentre una fitta le contrae il respiro. Ha affidato a una maschera la definizione completa della sua identità quando invece quella ne racconta solo un cono di luce. Ora la maschera cela una terribile verità: siamo abitati da sconosciuti che non abbiamo mai invitato a vederci recitare nel nostro monologo più riuscito. Ho scoperto che sono poche, pochissime le cose che mi mancano. Nessun vuoto per cui andare in penuria di ossigeno. Mi manca la me che non posso più permettermi di escludere. Abitudini stratificate come abiti accumulati su una sedia che si libera partendo dalla sommità per giungere a quelli soffocati sul fondo che non sono più né della tua taglia, né di tuo gusto. Acquisti bramati, preziosi, ma di un altro tempo. Lo stupore per la scoperta, la gioia di essere in salute (per me e i miei affetti), la gratitudine per chi trova il modo di esserci scopro in fondo al mio respiro. Vorrei dirvi che mi manca la "normalità" di ieri con tutta la cascata di azioni, oggetti, logiche che avevano pure un senso, ma sarei come quell'attrice decaduta. Mancava, è mancata a lungo, la bellezza di accorgersi. Mi è mancato accorgermi che respiro. È bellissimo e ora voglio continuare. Dietro le parole ho sempre trovato le difese più potenti. Quando ho trovato l’immagine di un libro aperto a simulare una protezione simile a una mascherina, mi è sembrata alquanto pertinente per il suo rimando: la capacità di fare silenzio per mettersi in ascolto, per non sprecare neanche una parola.
Quindi in questo periodo così ricolmo di opportunità, di Tempo (che di solito inseguiamo e invece ora si è fermato per farsi raggiungere) e di Amore, io per proteggermi resto a casa in compagnia dei libri. Ho approfittato della solidarietà digitale e ho fatto il pieno convertendomi (non so per quanto, perché ho bisogno del contatto con la carta) alla lettura di ePub. Confesso che tra i più “generosi” e dai contenuti pregevoli c’è il Saggiatore. Basta cercare il sito e nella sezione Solidarietà vengono forniti ogni due giorni dei titoli di tutto rispetto. Il primo che ho potuto prendere è L’anno del pensiero magico di Joan Didion che ha un esordio talmente spiazzante da avermi tenuta incollata per venti pagine. È la sua storia, quella vissuta dopo l’improvvisa morte del marito, scrittore e sceneggiatore. Avevano scritto assieme lo script del film Qualcosa di personale. Dell’autrice è anche la sceneggiatura di È nata una stella del 1976, a cui si è rifatto il recente successo di Bradley Cooper. Vi parlerò dopo averli letti degli altri due che sono riuscita a prendere. Gli immortali. Storie dal mondo che verrà di Alberto Giuliani e Acquadolce, romanzo d’esordio anch’esso autobiografico di Akwaeke Emezi. Catturano perché gli incipit rimandano subito all’idea di culture altre, saperi antichi che il mondo occidentale così progredito e digitalizzato ha dimenticato. Poi mi sono spostata su https://www.bookrepublic.it/ e lì ho trovato Elettra, un racconto breve, gratuito, di appena 20 pagine, di una delle mie eroine, Amélie Nothomb, che ho avuto la fortuna di ascoltare nel 2016 in occasione di una presentazione. I suoi personaggi sono sempre mancanti di qualcosa e forse per questo immediatamente affascinanti. Il pregio della sua scrittura è di consegnare al lettore il personaggio chiamandolo a interpretarlo, a cercare le risposte che forse lei stessa non ha trovato, proprio come per la sua Elettra. Amélie Nothomb, se leggerete l’articolo che posto al link, sembra essere arrivata da un’altra epoca. Da sempre avulsa a ogni tecnologia: non ha cellulare, indirizzo di posta elettronica o computer. Tutti i suoi testi sono scritti a mano e consegnati su un quaderno al suo editore. https://www.zestletteraturasostenibile.com/amelie-nothomb-il-pensiero-la-poetica-la-dimensione-profetica-dei-suoi-scritti/ Sfoglio su Facebook la cartella dei ricordi degli anni precedenti e trovo questa immagine. Un mio contatto... No, non una semplice amica, ma una delle mie prime guide (@Zanauel Bijoux), nel 2013 pubblicava questo scatto mentre era di passaggio a Gioia Tauro (provincia di Reggio Calabria) dicendo che di quel posto, questa era l'immagine che più di tutte avrebbe conservato.
Rifletteva sulla bellezza di questo ulivo che pur in un luogo inconsueto, difficile perché sotto il sole a picco, battuto dai venti e dalla salsedine del mare, era cresciuto al punto da issarsi glorioso e mostrarsi resistere. Ho pensato che questa foto e questo ulivo esistono da ben prima di questa mattina del 2020, in una primavera inconsueta che sembra fare tutto il contrario di ciò che dovrebbe; porta la neve anziché fiori che sbocciano, ci fa chiudere anziché portarci fuori. E se l'istinto a scattare quella foto, l'ulivo fermamente arroccato e questo presente che non riusciamo a spiegare fossero un unicum di perfezione? Sono certa che questo ulivo sia ancora lì (solo, senza nemmeno uno schermo amico a fargli compagnia), con i suoi rami che tendono verso l'alto come le braccia di un bambino che attende fiducioso che la madre lo sollevi. E se Madre Natura è capace di ricordarsi (nel suo significato più viscerale di "prendere a cuore") di un unico albero sul picco di una roccia in mezzo al mare di un piccolo comune di una provincia in punta allo stivale, perché non dovrebbe ugualmente "avere a cuore" ognuno di noi? #abbiatefiducia #gratitudine Negli anni leggendo, cercando, studiando ho compreso un’unica ed essenziale verità. La realtà fuori non esiste, gli altri non esistono se non nelle nostre percezioni di loro, così parcellizzate, così personali e falsate che si potrebbe arrivare a dire che non conosciamo davvero nessuno. Tantomeno noi stessi. Sono gli altri a offrirsi in questo caso come specchio, ma ciò che vediamo è simile a provare a scorgere di una stanza tutto l’arredo, i colori delle pareti, la posizione delle finestre guardando dal buco della serratura. Se fossimo sempre vigili e svegli approfitteremmo di ogni occasione di confronto, di ogni relazione (anche e soprattutto la più sofferta) per ricomporci di un pezzo. L’altro inconsapevolmente ci regala porzioni di noi che permetteranno solo alla fine, forse, di avere e gioire dell’immagine completa. Una volta ho ascoltato qualcuno dire che i più illuminati arrivano a sentire che ogni cosa che esiste, che si muove sul pianeta, da un geyser alla più piccola goccia di pioggia, è loro responsabilità. Siamo abituati tuttavia a considerare gli altri corpus separati e le terre lontane un altrove ricomposto in milioni di pixel su uno schermo. Fino a quando una famiglia di virus con la corona (regale, dunque, a cui riservare un’accoglienza degna) ci ricorda che le distanze non esistono e ci obbliga a misurarle. Non solo. Ci impone la chiusura in un forzato isolamento per smorzare il contagio. Ma cosa viene a dirci davvero questo regale batterio che pur infinitamente piccolo ha il potere di farci chinare la testa e fermarci. Ferma le abitudini, ci rallenta per farci riconquistare la capacità di ascoltare di nuovo, gli altri e noi stessi. Ieri sera, mentre mi domandavo quanta parte di responsabilità abbia in questo caos mondiale, incrocio uno scritto che usando poesia e matematica (due ingredienti imprescindibili del nostro Universo) spiega che sopravvivono solo le cose che hanno cuore. Dunque un potente re virale senza cuore, destinato a passare lasciando dietro di sé ingenti danni, proprio come lo sono tutte le cose animate da sentimenti di bassa vibrazione come la delusione, la rabbia, il risentimento, il rancore. Che la terapia più efficace sia la gioia? Restare a casa significa anche farsi raggiungere da noia, smarrimento, confusione perché la routine è stravolta. Eppure fateci caso. Gli unici a non esserne sconvolti sono gli anziani, abituati alla solitudine, e i bambini che giocano anche soli. Fate ciò che vi fa stare bene e vi connette con il silenzio e una gioia atavica (che devi imparare da te, perché non è una cosa che gli altri sanno insegnare, dice Igor Sibaldi). C’è chi cucina, chi fa musica, chi lavora anche da casa, chi crea video divertenti. Poi ci sono quelli che si stanno dedicando alle pulizie straordinarie, dal telecomando alla cella del freezer, c’è chi studia parole nuove, chi improvvisa una sfilata virtuale di pigiami (per dimostrare di essere a casa e dare il buon esempio). Credo che siano vincenti anche quelli che semplicemente restano immobili su un divano a farsi raggiungere da emozioni contrastanti. Perché stare nelle emozioni aiuta a liberarcene. Questo Re che arriva da lontano fa paura perché ci fa vedere un mostro interiore infettato di egoismo, di superfluo, di azioni e pensieri. Guardiamolo dritto in faccia, restiamo in sua compagnia (ma a distanza di sicurezza) e poi soffiamolo via come farebbe un bambino convinto che il bacio della mamma sulla ferita guarisca tutto. Perché un giorno lontano ci hanno detto che quel bacio non era così magico, che non ci meritiamo le cose belle e che ci si salva da soli. |
Alessandra NennaSogno. Archivi
Gennaio 2024
HomeVoce ai personaggi (il podcast del romanzo)
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