Ve la ricordate la canzoncina Ci vuole un fiore? Per fare un tavolo ci vuole il legno, Per fare il legno ci vuole l'albero... L’abbiamo imparata tutti e ha una sua valida morale: tutto è collegato e ha origine da qualcosa di apparentemente piccolo e semplice come un fiore. Tenete a mente. Cosa c’entra quindi con la Rivoluzione del titolo? C’entra perché sulla posta mi sono ritrovata a rispondere a un “quiz” di dieci domande sulla Fashion Revolution Week. Sulle prime mi ha incuriosito perché, ammetto, per ogni risposta corretta avrei ricevuto un simbolico premio virtuale da utilizzare per l’acquisto e lo scambio di abbigliamento in quello che credo sia un circuito virtuoso di secondhand clothing che va nella direzione della riduzione degli sprechi e della ecosostenibilità. (ve ne parlerò dopo). La seconda leva a muovermi è stata mettere alla prova la mia conoscenza sulla moda sostenibile, come citava appunto la descrizione di ingresso al test. “Vediamo quanto ne so. Che poi, che è ‘sta “Fashion Revolution”, mi sono detta. Ho scoperto così che è un movimento globale nato dalle persone che lavorano nel mondo della moda direttamente e per indotto, ma che coinvolge chiunque si senta tirato in causa, perché come recita il manifesto (lo trovate qui) siamo tutti cittadini del mondo (che necessitano di vestirsi, almeno secondo le attuali leggi vigenti in materia di pudore). Il movimento è nato nel 2013 perché il giorno 24 aprile (l’anniversario tra 4 giorni) crollò a Dacca, in Bangladesh, una palazzina di otto piani dove erano collocate cinque diverse fabbriche tessili di abbigliamento per marchi internazionali. Morirono oltre 1000 persone e circa 2500 rimasero ferite. Questo episodio portò l’attenzione sulle storture (sfruttamento di persone, di risorse) di un mondo apparentemente patinato. L’obiettivo ancora oggi dopo sette anni è stimolare il singolo consumatore a una riflessione sullo standard di produzione di tanti riconosciuti brand famosi. Per tutta la settimana, per ovvi motivi l'evento ha una dimensione esclusivamente social, si potrà prendere parte al movimento indossando un indumento al contrario, scattando e postando una foto sui social chiedendo ai brand “Chi ha fatto i miei vestiti”? completando con gli hashtag #WhoMadeMyClothes #FashRev. Sicuramente non riceveremo la risposta di Armani, Guess o Liu Jo, ma serve a prendere consapevolezza. Si può inviare una mail o postare sui social con tanti materiali scaricabili. Il concetto di base, straordinario, è che anche la più piccola voce ha potere. Usiamola per partecipare, per dare il nostro contributo anziché subirlo. Sapevate per esempio (io no, l’ho scoperto adesso) che per produrre una t-shirt di cotone (UNA!) servono 2700 litri di acqua? L’equivalente di 27 docce o se preferite il consumo medio di acqua giornaliera per dissetarsi spalmato in tre anni e mezzo. Ovviamente parliamo della pianta del cotone che richiede ingenti quantità di acqua, a sua volta inquinata dai metodi di coltivazione, tutt’altro che naturali. Quindi sempre il test chiedeva se si era a conoscenza di quali fossero i materiali più sostenibili elencando tra questi Lino, Ramiè, Nylon, Lycra e Kapok. Per approfondire quelli tra questi che non conoscevo mi sono ritrovata con almeno dieci pagine diverse aperte che mi hanno portato a un’unica considerazione: le materie prime da preferire sono le fibre antiche come lino e canapa che possono essere coltivate senza l’uso di pesticidi, fertilizzanti e soprattutto la canapa (che cresce alle nostre latitudini) apporta una serie di benefici perché non esaurisce il terreno, ma anzi lo protegge aumentandone l’umidità e rendendolo idoneo a successive coltivazioni. La resa per un ettaro di terra è pari al 250% in più di fibre tessili rispetto al cotone. Ah, non ultimo. Tra le qualità del tessuto si annovera la capacità termoregolatrice e anti-microbica (non male di questi tempi). Pensateci insomma la prossima volta che state per acquistare una maglietta di cotone. Se poi non ne potete già più di tutti i flashmob e challenge aggregativi di questo periodo, be’ potete sempre immaginarvi finalmente a passeggio con i vostri abiti della bella stagione (in arrivo, si spera). E se non vi stanno più o vi annoiano, non buttateli via. Scambiateli. È il principio del Secondhand, già diffusissimo all’estero. Io da qualche tempo ho sperimentato Armadio Verde (cercate su Zio Google). Hanno sede a Genova. Ci si registra sulla piattaforma, si richiede il ritiro (a loro spese) del pacco di abiti che si vogliono dismettere (ovviamente parliamo di abiti tenuti in buone se non ottime condizioni. Non stiamo vestendo i barboni. E nemmeno in quel caso) e si aspetta la valutazione. Dopo qualche giorno via e.mail si riceve la valutazione in stelline degli indumenti inviati (anche scarpe e borse) che diventa così la moneta virtuale con la quale fare a nostra volta acquisti sul portale. Ogni articolo della collezione è controllato, misurato fotografato con centimetri reali riportati nella singola scheda. Dopo i primi acquisti ho capito per esempio che la lunghezza perfetta per me per le gambe dei jeans è 78 centimetri (praticamente quanto la tibia della Ekaterina, la modella russa con le gambe più lunghe del mondo).
Sicuramente la rete offre tante soluzioni simili, ma questa è quella più soddisfacente finora relativa alla mia esperienza. Certo, mi capita ancora di acquistare capi nuovi, ma ho dato nuova vita e possibilità a vestiti, jeans, maglioni che forse avevo indossato meno di cinque volte da quando erano stati acquistati. Con questa ultima informazione ho fatto la splendida, ammetto, perché era una delle risposte del test. Sì, pare che le uscite di un capo di abbigliamento col suo acquirente siano in media cinque (confortante sapere che sopravviva più di un qualunque flirt dei tempi d'oggi). Tuttavia, battute facili a parte, mi ha portato a interrogarmi. Soprattutto alla luce del fatto che da oltre un mese siamo tutti i giorni in tuta. Rivoluzioniamoci.
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Sessant'anni fa tre esperti sono stati capaci di "predire" questo futuro tecnologico oggi sospeso sull'incerto.
Leggetelo l'articolo perché a volte si ha bisogno di leggere nelle parole altrui quanto siamo fortunati. A me è sembrato perfino di vederlo quel giornalista che batte veloce sui tasti i cui braccetti collegati rimbalzano sulla carta, che magari si incastrano fra loro e il nastro salta. Una fatica che sembra così lontana (e per fortuna lo è) e che abbiamo fatto nulla per lasciarcela alle spalle. Stamattina mi piace pensare che forse è anche merito di quel giornalista, perché il pensiero è sempre energia creativa, se possiamo leggere un libro senza scomodarci dalla sedia di casa per andare in biblioteca. Anzi, siamo così fortunati che molti di noi in casa possono avere la propria, di biblioteca. Cartacea o digitale. Così come tutto il resto. Infine mi sono chiesta se quel collega, premiato da un viaggio nel futuro, avesse potuto vedere le strade deserte odierne, respirare le nostre paure che si propagano insidiose proprio attraverso quei magici "videofoni" da lui descritti. Quindi almeno per oggi sento di dovermi scusare con lui se non abbiamo saputo immaginare finora un mondo migliore. |
Alessandra NennaParlo e scrivo dal basso. Archives
Giugno 2022
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